Avviare subito il Piano Juncker
Roberto Palea
9 aprile 2015
L’UE si confronta con alcune sfide che potrebbero essere mortali. Tra queste, una particolare gravità assume il perdurare di una crisi economica e occupazionale che non ha precedenti dal dopoguerra.
Essa ha certamente influito sulla caduta di popolarità allarmante del progetto europeo: nell’ultimo decennio il sostegno all’idea di far progredire l’Unione si è ridotto alla metà.
La fiducia dei cittadini europei si può recuperare soltanto dimostrando nei fatti che gli europei uniti possono fare meglio che separati, dando risposte unitarie, per quanto imperfette, in tempi brevi alle sfide mortali di cui si è detto.
Per stimolare l’economia e far ripartire l’occupazione, il Piano Juncker può rappresentare un punto di svolta.
Nel suo programma, Jean-Claude Juncker prevede di finanziare non solo gli investimenti infrastrutturali ma anche il potenziamento della ricerca e dello sviluppo tecnologico, decisivi in un periodo in cui l’innovazione è il principale strumento di cui le imprese dispongono per competere sul mercato globale.
Va inoltre ricordato che Juncker, nel novembre 2014, ha ottenuto dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo l’impegno a realizzare l’Unione Europea dell’Energia, che comporterà ingenti investimenti a livello europeo, in sintonia con i settori di intervento (e le necessità di finanziamento) del Piano Juncker.
La Commissione dovrà porsi obiettivi molto impegnativi tra i quali riconvertire, con regia unitaria, il settore della produzione di energia, per rispettare i limiti d’inquinamento adottati dall’UE stessa per far fronte ai cambiamenti climatici.
Il problema che si pone è quindi, da un lato, quello di mettere in condizione il Piano Juncker di iniziare la propria attività in tempi brevi e, dall’altro, di porre, progressivamente, a disposizione della Commissione le risorse necessarie per realizzare un piano di investimenti ambizioso ed efficace, incentrato sull’innovazione e sulla riconversione in senso ecologico dell’economia (per le quali le stime di 2.000 miliardi di euro della Commissione Barroso non paiono eccessive).
D’altra parte lo stesso Juncker considera i 315 miliardi del Piano una dotazione iniziale, minima, da accrescere nei tre anni considerati, mediante fondi aggiuntivi derivanti da Stati, enti di investimento pubblici (quali la Cassa Depositi e Prestiti o la Caisse des Dépôts) ed investitori istituzionali privati.
Al proposito, ricordiamo che il 12% dell’immissione di liquidità della BCE, attraverso il Quantitative Easing (60 miliardi al mese), può essere destinato all’acquisto, sul mercato secondario, di titoli emessi da istituzioni comunitarie o da agenzie europee (come la BEI o l’ESM), e quindi in definitiva all’acquisto di bond della BEI o dello stesso Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (FEIS) creato col Piano Juncker.
Questo 12% potrebbe essere elevato ad almeno il 20% (percentuale corrispondente a quella parte delle immissioni di liquidità della BCE non garantita dalle Banche centrali nazionali), accedendo così, parzialmente, nel limite di quanto oggi sembra possibile, alle proposte di Yanis Varoufakis e di Mariana Mazzucato (che vorrebbero l’intera liquidità del QE investita in un piano europeo comune di innovazione e di investimenti).
Inoltre, le nuove regole di flessibilità fiscale stabilite dalla Commissione consentono agli Stati di garantire contributi addizionali al FEIS e pure di cofinanziare, anche attraverso il proprio sistema bancario nazionale, singoli progetti già finanziati dal FEIS, senza che questi pagamenti vengano conteggiati nel deficit e nell’indebitamento ai fini del Patto europeo di stabilità e crescita.
Ecco un’altra consistente fonte di finanziamento, soprattutto dopo che è stato assicurato ai governi nazionali che il finanziamento a piattaforme di progetti nazionali comporterebbe la garanzia del “ritorno” dell’investimento nel proprio Paese, sebbene alla condizione che la “governance” rimanga sempre nelle mani della Commissione.
Ritengo che ci siano quindi le condizioni affinché il Piano Juncker sia in grado di iniziare (al più presto) la propria attività. Rimane, peraltro, difficile che un piano di sviluppo destinato a creare innovazione e beni pubblici adeguati alle reali necessità della situazione europea (per loro natura inadatti a corrispondere una remunerazione interessante a capitali privati) possa realizzarsi senza nuove imposte per finanziare il FEIS.
Lo strumento delle “cooperazioni rafforzate” può essere utilizzato, secondo la normativa UE, per prelevare imposte tra un gruppo di Stati e per destinarle, in tutto o in parte, a un Fondo speciale europeo avente come obiettivo la destinazione a finalità specifiche, qual è il FEIS (in quanto ciò non lede il principio dell’universalità del bilancio comunitario).
La prima imposta europea da destinare al FEIS dovrebbe essere la tassa sulle transazioni finanziarie (TTF) già attivata con una cooperazione rafforzata tra 11 Paesi dell’Eurozona.
Un’altra imposta potrebbe essere la carbon tax europea, congeniale all’obiettivo di “decarbonizzazione dell’economia”, come illustrato in precedenti Commenti da Alberto Majocchi. Secondo l’ipotesi Majocchi, al gettito della TTF e di una carbon tax europea potrebbero corrispondere, con una leva moderata, ingenti capitali da destinare annualmente al FEIS.
Il FEIS dovrebbe segregare in specifici comparti, a secondo della natura e provenienza, i fondi raccolti, al fine di assicurarne l’utilizzo a favore di Paesi cooperanti. Si configurerebbe così come un Fondo Multicomparto, gestito fiduciariamente dalla BEI, tramite un Consiglio Direttivo che opererebbe sotto la responsabilità politica della Commissione, che impartirebbe le indicazioni di investimento.
In tal modo, il FEIS sarebbe sottoposto indirettamente al controllo democratico del Parlamento Europeo, al quale la Commissione deve rispondere. In una fase iniziale e transitoria, il principio democratico “no taxation without representation” potrebbe considerarsi rispettato.
* Presidente del Centro Studi sul Federalismo