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Quale ruolo internazionale per l’euro

Flavio Brugnoli
Commento n. 217 - 21 aprile 2021 


 
 

L’euro è una moneta giovane, in circolazione da poco meno di vent’anni. Ma è anche la moneta dell’area economica più integrata del pianeta e di circa 340 milioni di europei, nei 19 Stati membri dell’eurozona. Al ruolo internazionale dell’euro la Banca centrale europea (Bce) dedica fin dall’inizio una scrupolosa attenzione – il suo rapporto annuale in materia nel 2020 è arrivato alla diciannovesima edizione. I grandi e spesso inattesi cambiamenti nel sistema economico e finanziario internazionale negli ultimi anni hanno investito anche l’Unione economica e monetaria europea. Ma è con la pandemia che il ruolo internazionale dell’euro è entrato appieno nell’agenda politica, all’interno del più ampio dibattito sulla “autonomia strategica europea”. Un obiettivo che copre una molteplicità di ambiti – dalla sanità al digitale, dalla politica industriale alla difesa –, talvolta in termini ancora piuttosto generici. Ragione di più per approfondire la riflessione su opportunità e problemi di un accresciuto ruolo internazionale dell’euro.

Non stupisce che il rilievo dato alla dimensione internazionale dell’euro sia cresciuto, da parte degli europei, al crescere della loro consapevolezza di fronte alle scelte spesso ostili messe in atto dall’Amministrazione Trump. Un approccio che vedeva nel dollaro una vera e propria arma finanziaria (tanto che si è parlato di una sua “weaponization”), con in parallelo un uso spregiudicato delle “sanzioni secondarie” contro Paesi alleati di cui non si condividevano scelte o strategie. A iniziare a mettere in evidenza la questione era stato l’allora Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, nel suo Discorso sullo stato dell’Unione 2018 (non a caso dedicato a “l’ora della sovranità europea”): “è assurdo che l’Europa paghi in dollari USA l’80% della sua fattura per le importazioni di energia – che è pari a 300 miliardi di euro l’anno –, quando solo il 2% circa delle nostre importazioni di energia proviene dagli Stati Uniti. È assurdo che le compagnie europee acquistino aerei europei in dollari anziché in euro”.

Ma il tema della sostenibilità politica, economica e finanziaria di un ruolo egemone del dollaro americano nel sistema monetario internazionale si era posto prima di Trump ed è destinato a porsi dopo di lui, con il Presidente Biden. Tanto più al cospetto degli impressionanti impegni economici della sua Amministrazione in risposta alla pandemia, che si scaricheranno su deficit e debito federali americani. Non si tratta certo di immaginare una velleitaria sostituzione del dollaro in tale ruolo, come ci ha insegnato Robert Triffin con il suo “dilemma” (secondo il quale se la moneta di riserva internazionale è una qualsiasi valuta nazionale si incorrerà, prima o poi, in un conflitto insanabile fra le esigenze interne di stabilità monetaria e quelle internazionali di fornitura di liquidità). Si tratta piuttosto di arrivare a un effettivo sistema multi-valutario, che possa poggiare su più pilastri, dall’euro al renminbi. Va da sé che questo richiede una pluralità di passaggi, che comportano nuove responsabilità di cui bisogna essere consapevoli.

Se guardiamo alle tre funzioni della moneta – unità di conto, mezzo di scambio, riserva di valore –, l’euro ha raggiunto traguardi significativi: secondo i dati della Bce, a novembre 2020 il 38% dei pagamenti internazionali era denominato in euro e quasi il 20% delle riserve valutarie era in euro (il peso del dollaro è all’incirca triplo). Ma è un fatto che il trend di crescita iniziale abbia subito un arresto con la crisi del 2007-08. Un maggior utilizzo dell’euro quale valuta di fatturazione (in particolare per energia e materie prime – anche su nuovi mercati, quali quello dell’idrogeno) e di indebitamento/investimento, abbasserebbe i costi di transizione per gli operatori europei e l’impatto di eventuali shock esogeni, e rafforzerebbe il ruolo delle autorità monetarie europee. Al tempo stesso, potrebbe esporre l’euro e il mercato interno a un impatto accresciuto di eventuali movimenti rialzisti in tempi di crisi, proprio a causa del surplus di credibilità acquisito dall’euro a livello globale. È quindi fondamentale che la moneta europea poggi su basi solide.

La forza esterna dell’euro si costruisce anzitutto all’interno dell’Unione, come di recente ha ricordato anche il Presidente del Consiglio Mario Draghi. La Commissione ha mostrato di averne piena contezza con la sua Comunicazione del 19 gennaio scorso, mirata a “promuovere l'apertura, la forza e la resilienza” del sistema economico e finanziario europeo. Vanno in questo senso il necessario completamento dell’Unione bancaria, con l’assicurazione europea sui depositi, e dell’Unione dei mercati dei capitali, per rafforzare ampiezza e liquidità del mercato finanziario europeo, insieme con il rafforzamento (in tempi di cybersecurity) delle infrastrutture tecnologiche di tale mercato. Un altro passo fondamentale è stato il varo di Next Generation EU (NGEU), con la possibilità per la Commissione di indebitarsi, fino a un ammontare di 750 miliardi di euro. Impegno che si aggiunge a quello fino a 100 miliardi di euro per il SURE, il meccanismo europeo di sostegno all’occupazione. Passaggi chiave per arrivare a costruire un safe asset europeo denominato in euro, riferimento indispensabile per gli operatori finanziari. Un obiettivo che sarà davvero realizzato quando NGEU da strumento temporaneo diventerà il pilastro di una Unione fiscale. Un argomento che oggi divide i Paesi membri dell’Unione, mentre manca ancora l’approvazione da parte di una decina di Stati membri della Decisione sulle risorse proprie (con la ratifica tedesca tenuta in sospeso dalla Corte costituzionale federale), indispensabile affinché la Commissione possa raccogliere sul mercato le risorse per finanziare NGEU.

Intanto già si affacciano altri cambiamenti profondi, di paradigma economico e sociale, che sono destinati a riverberarsi anche sull’euro e che quindi devono essere all’attenzione dei decisori politici. In fondo, riguardano proprio i due versanti su cui la Commissione europea fin dal 2019 ha costruito la propria azione a medio termine: la “doppia transizione”, verde e digitale, con molteplici implicazioni “geopolitiche” – ovvero sul terzo pilastro (trasversale) della strategia disegnata dalla Commissione von der Leyen.

Un primo ambito riguarda l’avanzare di quelle spesso definite “criptovalute”, che da un lato rischiano di essere elementi di turbativa dei mercati internazionali, ma dall’altro segnalano il peso ineludibile assunto dal digitale nella realtà contemporanea. Esse stimolano le banche centrali a valutare il potenziale offerto da nuove valute di riserva digitali “stabili”, così come a studiare, nel caso della Bce, le possibili caratteristiche di un euro digitale. Sul versante della transizione ecologica, vediamo che il prezzo guida sta diventando quello del carbonio: in un mondo che punta alla “neutralità climatica” il carbon pricing sembra destinato ad assumere il ruolo – tanto simbolico quanto sostanziale – che per decenni è stato del prezzo del petrolio. L’Ue può giocare un ruolo d’avanguardia nel definire le regole in questo campo, grazie allo European Green Deal e a NGEU, e anche questo potrebbe rafforzare il ruolo internazionale dell’euro.

Al tempo stesso, prezzi “universali” quali quello del carbonio potrebbero trovare nell’SDR (Special Drawing Rights, il paniere di valute del Fondo Monetario Internazionale - FMI) l’unità di conto ideale. Ricordiamo che nel paniere dell’SDR l’euro pesa oggi per il 30,93%, accanto al 41,73% del dollaro, mentre il resto è ripartito, in misura decrescente, fra renminbi, yen e sterlina. Va salutato con grande soddisfazione il recente accordo raggiunto dai ministri delle finanze del G7 – una volta rimosso il miope veto posto dall’Amministrazione Trump – per un’allocazione straordinaria di SDR da parte del FMI, a beneficio delle economie dei Paesi a basso reddito, che rischiano di essere travolti dalla pandemia. È un segnale importante da parte dell’Unione europea, in particolare nei confronti del continente africano, e può costituire un ulteriore contributo (indiretto) allo sviluppo del ruolo internazionale dell’euro.

*Direttore del Centro Studi sul Federalismo (pubblicato ieri da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)

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