L’Italia di Mario Draghi, garante e costruttore in Europa
Flavio Brugnoli
Commento n. 211 - 1° marzo 2021
La carta d’identità del governo presieduto da Mario Draghi non lascia spazio a dubbi: è un esecutivo – come da lui sottolineato nelle dichiarazioni programmatiche al Senato – che nasce “nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori”. La scelta difficile e coraggiosa compiuta dal Presidente della Repubblica nel conferimento dell’incarico si è fondata sulla storia e il prestigio di Draghi, nelle istituzioni italiane ed europee. È già evidente il rischio di caricare il nuovo governo di un eccesso di aspettative. Il 2021 sarà un anno ancora di grandi difficoltà, a causa della pandemia e del suo impatto economico e sociale. Nel contempo, abbiamo di fronte nuove opportunità, su scala europea e internazionale, alle quali l’Italia può dare un contributo lungimirante.
Il Presidente Draghi ha saputo trovare parole emozionanti per ricordare a tutti che: “Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere”. L’appartenenza all’Unione europea (Ue) e la “irreversibilità della scelta dell’euro” sono passaggi epocali per il nostro Paese, che definiscono il cammino davanti a noi, con “la prospettiva di un’Ue sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione”. Il quadro di riferimento è quello, caro ai federalisti, della sovranità condivisa e delle identità plurime: “Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza”.
Anche il governo Draghi, come ormai tutti quelli delle democrazie occidentali, è consapevole che se non si affronta di petto la pandemia non c’è reale prospettiva di ripresa. Ogni livello istituzionale deve fare la sua parte, come ha mostrato il G7 il 19 febbraio scorso, con i 7,5 miliardi di dollari destinati a COVAX, per i vaccini nei Paesi più poveri. Nel caso dell’Italia, oltre che a una campagna vaccinale che deve accelerare, la ripresa è legata al buon uso – in termini di investimenti e di riforme – dei fondi di Next Generation EU (NGEU). Quei fondi sono stati il frutto di un notevole lavoro di squadra del governo precedente (e degli esponenti italiani nelle istituzioni europee), riconosciuto dallo stesso Draghi. Il nuovo esecutivo deve “approfondire e completare quel lavoro”: è nelle condizioni di poter fare da garante in Europa della serietà nella costruzione e attuazione del nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), e al tempo stesso di agire da co-protagonista nel disegnare la nuova agenda europea. Dalla credibilità e dal successo del PNRR italiano (che si svilupperà fino al 2026, impegnando anche qualsiasi maggioranza politica futura) dipendono la credibilità e il futuro di NGEU.
Anche per l’Europa “non esiste un prima e un dopo”: l’Unione che verrà va pensata e costruita fin da oggi, di concerto con le istituzioni europee e gli Stati membri più influenti ed europeisti. Il ruolo che Mario Draghi saprà giocare in sede di Consiglio europeo può essere fondamentale. Sarà nel corso del 2021 che verrà discusso, sulla base delle proposte della Commissione, il futuro del Patto di Stabilità e Crescita, sospeso ancora per tutto quest’anno, che si ridisegnerà l’approccio europeo in tema di aiuti di Stato (il loro pur necessario allentamento rischia di rafforzare i Paesi già più forti), che si porrà il problema del destino di uno strumento “temporaneo” quale NGEU, possibile embrione di un’Unione fiscale e di quel “bilancio comune” auspicato da Draghi. Questioni delicate da porre oggi, mentre è in corso l’approvazione della decisione sulle nuove risorse proprie da parte degli Stati membri, ma che risultano ineludibili.
Mario Draghi nel suo discorso in Senato ha disegnato per l’Italia una sorta di doppia vocazione al dialogo europeo: verso i Paesi guida con cui siamo più integrati economicamente – dobbiamo “meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania” – e verso quelli con cui condividiamo uno spazio geografico e le sfide che esso sta affrontando – dobbiamo “consolidare la collaborazione con Stati con i quali siamo accomunati da una specifica sensibilità mediterranea e dalla condivisione di problematiche come quella ambientale e migratoria: Spagna, Grecia, Malta e Cipro”. Si delinea così un ruolo per l’Italia sia quale possibile cerniera fra questi due ambiti, affinché la costruzione europea possa avanzare su basi ampiamente condivise, sia come soggetto capace di far pesare di più nelle priorità dell’agenda europea “le aree [per l’Italia] di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa”.
Teniamo presente il calendario politico-elettorale: la Germania andrà al voto a settembre, con l’uscita di scena della Cancelliera Merkel; la Francia terrà le presidenziali nell’aprile 2022, con il Presidente Macron impegnato in una rielezione che oggi è difficile dare per scontata. Questo fa temere uno stallo a livello europeo, ma può aprire spazi significativi all’Italia e al suo Presidente del Consiglio. Un buon test sarà nel campo della sicurezza, in cui gli europei da un lato si trovano impegnati a definire un loro “Strategic Compass”, entro il 2022, dall’altro con l’Amministrazione Biden ritrovano un interlocutore transatlantico attento alla NATO e alla sua componente europea. Così come la Germania fu il Paese chiave per il varo dell’Unione monetaria, per la difesa sarà la Francia (forte dell’arma nucleare e del seggio al Consiglio di Sicurezza ONU) a dover chiarire il ruolo europeo che intende svolgere. Un processo in cui l’Italia e il governo Draghi – proprio perché “convintamente europeista e atlantista” – possono avere un ruolo di ponte fra i due pesi massimi.
La presidenza del G20, detenuta per la prima volta dall’Italia (dal 1° dicembre scorso), delinea un altro campo di opportunità – grazie anche all’avvento della Presidenza Biden –, in cui far valere la caratura internazionale di Mario Draghi. Dobbiamo puntare a delineare un nuovo multilateralismo: pensiamo a dossier quali quelli della transizione ecologica (e del carbon pricing), delle risposte alla crisi economica e sanitaria (con anche il Global Health Summit, che l’Italia ospiterà il 21 maggio prossimo), della definizione di nuove regole per il commercio e per la governance del digitale. Il G20 sarà anche una sede in cui cercare di tenere aperto un dialogo con Russia e Cina, mantenendo fermi principi e valori dei Paesi democratici. In tema di lotta ai cambiamenti climatici, l’altra carta che ha l’Italia è la co-presidenza della COP26, insieme con il Regno Unito (che a sua volta preside il G7). L’azione dell’Italia non potrà che essere in piena sintonia con quella dell’Ue: è importante, in tal senso, che la Commissione e l’Alto Rappresentante Josep Borrell abbiano delineato, dopo le loro proposte per una nuova agenda transatlantica, quelle per un ruolo attivo dell’Unione in un multilateralismo adatto al XXI secolo.
In pochi anni lo scenario europeo e internazionale è radicalmente mutato. I due punti di svolta, che hanno segnato la sconfitta del disegno sovranista, sono state le elezioni europee del maggio 2019 e le elezioni americane del novembre 2020. Ma nei libri di storia questa nostra legislatura sarà descritta anche come un capolavoro istituzionale e politico del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un Parlamento nato con una rancorosa maggioranza di forze sovraniste e antieuropeiste, ha visto il varo di un governo con un’ampia maggioranza per la quale “spirito repubblicano” e “scelta europeista” costituiscono un binomio inscindibile. La navigazione del nuovo governo non sarà facile, e la credibilità di certe repentine svolte non potrà che essere misurata nei fatti. Ma già oggi sappiamo che chi salirà al Quirinale dopo Mattarella avrà un esempio prezioso da seguire e una chiara direzione di marcia europeista da proseguire.
*Direttore del Centro Studi sul Federalismo (pubblicato il 26 febbraio scorso da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)