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Il bilancio UE e i beni pubblici europei

Olimpia Fontana
Commento n. 207 - 8 gennaio 2021 


 
 

Uno dei temi centrali nel processo di integrazione europea riguarda la divisione dei compiti tra il livello nazionale e quello europeo. Da tempo ci si interroga sulla necessità che l’Unione europea (Ue) si occupi in misura maggiore di determinate politiche comuni, al di là di quelle riguardanti lo sviluppo del mercato unico. I trattati conferiscono infatti all’Ue il mandato di partecipare alla fornitura di certi beni pubblici, come ad esempio la sicurezza e la protezione ambientale, che appartengono alla sfera delle competenze condivise tra l’Ue e i paesi membri. Nel rispetto del principio di sussidiarietà, si tratta di stabilire a quale livello – nazionale o europeo – vada attribuita l’allocazione di quelle politiche che potrebbero essere perseguite in misura più efficiente se gestite al livello centrale.

In Europa la fornitura di beni pubblici (funzione allocativa) è un compito nelle mani dei governi nazionali o di amministrazioni subnazionali, mentre il bilancio comunitario rivolge gran parte della propria spesa (poco più del 70%) a programmi, come i fondi strutturali e la Politica agricola comune, che rispondono a una funzione redistributiva. Nell’attuale programmazione 2014-2020 solo circa il 20% del bilancio è indirizzato alla funzione allocativa con politiche comunitarie relative al mercato unico (ad esempio ricerca e innovazione e reti infrastrutturali), sicurezza e cittadinanza (quali sicurezza interna e migrazione), azione esterna (come cooperazione allo sviluppo e politica di vicinato). Sebbene nelle ultime due programmazioni sia avvenuta una lieve riformulazione del budget in favore dei beni pubblici europei, la tradizionale configurazione redistributiva del bilancio non è cambiata nella sostanza.

In economia, i beni pubblici sono definiti sulla base di determinate caratteristiche (i principi di non escludibilità e non rivalità nel consumo) tali per cui non risulta possibile trarre un profitto dalla loro produzione, che viene quindi demandata al settore pubblico. Per definire poi il passo successivo – beni pubblici a livello europeo – si ricorre a ulteriori criteri, quali la presenza di economie di scala e di esternalità (i c.d. spillover effects). In breve, assegnare fondi ad un livello più alto può generare economie di scala, con riduzioni su costi di cui altrimenti i paesi membri da soli non sarebbero in grado di beneficiare. Alcune politiche generano inoltre benefici che travalicano i confini nazionali, tali da giustificare una loro fornitura a un livello superiore. Si pensi al sistema europeo di navigazione satellitare civile Galileo – fondamentale per settori come la logistica, le telecomunicazioni e i trasporti –, reso possibile dalla collaborazione tra paesi europei, e non solo. Risulta evidente come i benefici di simili progetti di interesse comune europeo non possano ricondursi a un solo paese ma si estendano a tutti.

Ai beni pubblici europei si associa spesso il concetto di “valore aggiunto europeo”, definito dalla Commissione come il valore prodotto da un’azione condotta a livello europeo, che risulta maggiore rispetto alla semplice somma di singole azioni condotte dai paesi membri. Tuttavia, la logica prevalente con cui i paesi membri guardano al bilancio comunitario è spesso ancora quella del “giusto ritorno”, improntata a minimizzare la differenza tra contributi e benefici – e a ignorare la necessità di dotare il bilancio di adeguate risorse proprie. Questo modo di pensare può forse aver senso in caso di politiche redistributive, ma decade con la fornitura dei beni pubblici europei.

Se si guarda alla questione in termini di risparmi da un’unica gestione, si può calcolare la potenziale perdita di guadagno di una non-azione a livello europeo. I servizi di ricerca del Parlamento europeo hanno stimato in circa 180 miliardi di euro il risparmio derivante da una fornitura centrale di beni e servizi in quattro aree: politica sanitaria, cambiamenti climatici, assicurazione sociale, difesa. Opporre resistenza verso una riforma del bilancio comunitario rivolto alla fornitura sovranazionale di beni pubblici risulta quindi economicamente inefficiente e non risponde all’ingannevole tesi della difesa di un qualche interesse nazionale.

La ricerca del valore aggiunto, che ha sempre guidato l’azione dell’Ue sin dalle origini, è oggi al centro del dibattito sulla ridefinizione delle priorità strategiche dell’Ue. In un importante contributo, destinato ai Ministri delle finanze francese tedesco, Clemens Fuest e Jean Pisani-Ferry osservano che l’Ue si è concentrata nella sua fase iniziale sulla fornitura di beni pubblici come la difesa, l’autosufficienza alimentare e l’autonomia energetica, per poi dedicarsi negli ultimi decenni al progetto di integrazione economica e monetaria. Gli autori auspicano una riformulazione dell’impulso politico verso una maggiore fornitura di beni pubblici europei, in un contesto che oggi è trasformato dalla tecnologia, dalla minaccia ambientale, dai cambiamenti geopolitici e dalla gestione della pandemia. Ai criteri di efficienza economica si aggiungono quindi anche motivazioni legate alla necessità di fare fronte insieme a sfide di portata globale.

In linea con quest’analisi, l’agenda strategica 2019-2024 lanciata dal Consiglio Europeo prima della diffusione del Covid-19 afferma che “l’Ue deve essere grande sulle grandi questioni e piccola sulle piccole”, riferendosi al fatto che in un mondo sempre più instabile e complesso è necessario che i paesi membri consolidino i propri sforzi in quattro macro aree: la protezione dei cittadini e delle loro libertà, attraverso il controllo efficace delle frontiere esterne e una politica migratoria pienamente funzionante; lo sviluppo di un modello economico integrato e accompagnato da una politica industriale più assertiva e coordinata; la sfida verso i cambiamenti climatici in un modo socialmente sostenibile (attraverso il Green Deal europeo); il perseguimento di una capacità di azione (definita poi autonomia strategica) che tuteli gli interessi e i valori propri dell’Ue.

La crisi del Covid-19 può essere l’occasione per dare all’Ue un nuovo impulso nella produzione di beni pubblici europei. L’esperienza ci sta mostrando che anche alcuni aspetti del settore sanitario potrebbero rientrare nell’ambito delle competenze che sarebbero meglio gestite se trasferite a livello centrale. In secondo luogo, la risposta europea alla pandemia ha visto l’approvazione di un pacchetto aggiuntivo rispetto al Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 e di natura temporanea, il Next Generation EU, con misure prevalentemente rivolte alla stabilizzazione economica e alla redistribuzione (attraverso i programmi Recovery and Resilience Facility e ReactEU). Esso prevede strumenti finanziari innovativi, come l’emissione di debito comune e, in prospettiva, l’introduzione di nuove risorse proprie europee. Col tempo, queste importanti misure legate all’emergenza sanitaria dovranno diventare forme di finanziamento permanente del bilancio pluriennale per permettere all’Ue di fornire quei beni pubblici europei necessari per il benessere e la sicurezza dei cittadini.

Prima della crisi pandemica uno degli scenari per l’assetto futuro dell’Ue immaginati dal Libro Bianco sul futuro dell’Europa del 2017 consisteva nel “fare meno in modo più efficiente”: una via minimalista in cui limitate risorse disponibili si dividono tra un numero ristretto di settori. Il tragico imprevisto della pandemia, può darci l’opportunità di spingerci verso un’idea più avanzata di Unione: quella di “fare molto di più insieme”, in cui gli Stati membri decidono di condividere e affidare al livello europeo maggiori poteri, risorse e processi decisionali.

*Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo (pubblicato il 7 gennaio scorso da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)

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