“Regionalismo asimmetrico” Atto secondo, o “Nuovo regionalismo” Atto primo?
Stefano Piperno
Commento n. 138 - 20 dicembre 2018
Nel programma del governo basato sulla alleanza tra la Lega e il Movimento Cinque Stelle è prevista l’attuazione del regionalismo differenziato, con l’attribuzione di maggiori funzioni alle Regioni che lo richiedano in base all’art. 116, comma 3 della Costituzione, portando a rapida conclusione le trattative già aperte tra Governo e Regioni e attribuendo loro le “risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse”. Si accetta la logica di un regionalismo a geometria variabile, che tenga conto “sia della peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale”.
A più di sei mesi dalla costituzione del governo a che punto siamo? A luglio 2008 tre Regioni erano arrivate alla sigla di intese preliminari (prima della fine della XVII legislatura) basate su un limitato trasferimento di competenze all’interno di cinque ambiti: politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Altre sette Regioni (Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria) avevano formalmente conferito al presidente l’incarico di chiedere al governo l’avvio delle trattative per ottenere ulteriori forme di autonomia, tre Regioni (Basilicata, Calabria e Puglia) avevano assunto solo iniziative preliminari, mentre due Regioni (Abruzzo e Molise) non avevano ancora avviato nessuna iniziativa formale.
Successivamente, a livello politico si è assistito ad una ripresa di iniziativa da parte delle tre “regioni trainanti” (Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna), che si sono attivate per accelerare il processo avviato nella XVII legislatura con la firma delle intese preliminari. In particolare, il Veneto ha richiesto una rapida approvazione della legge di trasferimento prevista dall’art. 116, c. 3 della Costituzione allargando però la richiesta a tutte le 23 materie previste e ipotizzando l’utilizzo di una legge delega per ciascuna Regione. Inoltre ha lasciato trasparire il desiderio di appropriarsi di buona parte del residuo fiscale, ovvero di trattenere in loco una quota maggiore di tributi erariali a parità di competenze. La Lombardia sta seguendo lo stesso percorso, mentre l’Emilia-Romagna ha assunto un atteggiamento più cauto ampliando comunque il ventaglio di materie richieste. Nelle altre Regioni il processo è molto meno avanzato.
A questo punto cosa possiamo aspettarci? Una serie di contributi sul regionalismo asimmetrico contenuti nel Rapporto 2018 sulla finanza territoriale in Italia, una pubblicazione annuale predisposta da un gruppo di Istituti regionali di ricerca, consente di valutare alcuni aspetti rilevanti del processo in corso. Vediamo i principali:
- storicamente il federalismo asimmetrico nasce per rispondere a esigenze di autonomia dovute a profonde differenze etnico-culturali (lingua, religione, ecc.), tali da poter portare a rischi di secessione: questo non pare il caso italiano (forse lo è stato solo in parte nel momento della nascita delle Regioni a statuto speciale);
- l’attuale richiesta si basa più o meno esplicitamente su una presunzione di maggiore efficienza da parte delle amministrazioni regionali rispetto allo Stato nella fornitura di servizi o nello svolgimento di attività di regolamentazione;
- essa fa leva sulla necessità di valorizzare le vocazioni territoriali individuando funzioni strumentali per il raggiungimento degli obiettivi delle politiche regionali di sviluppo nel contesto delle politiche europee;
- prime stime sui costi delle funzioni da trasferire evidenziano come esse siano di una entità assai limitata se non si comprende l’istruzione nella sua interezza, includendo cioè anche la gestione del personale insegnante (come avviene in alcune Regioni a statuto speciale): la spesa delle tre Regioni aumenterebbe tra l’1,6% e il 2,1% (con l’istruzione si salirebbe tra il 21% e il 28%);
- non si è ancora affrontato il problema del finanziamento delle funzioni da trasferire; permane una ambiguità tra la scelta di un modello basato sulla spesa storica dello Stato nelle funzioni trasferite e uno, richiesto soprattutto dal Veneto, basato sul gettito regionale dei tributi erariali indipendentemente dal costo delle funzioni aggiuntive, tanto che sono emerse prese di posizione e appelli preoccupati da parte di autorevoli studiosi meridionali, timorosi di quella che è stata definita una sorta di “secessione dei ricchi”.
In definitiva, in assenza di solide motivazioni “culturali”, le richieste si basano sulla presunzione di poter svolgere meglio le funzioni gestite centralmente. Tale presunzione sinora non è stata però corredata da evidenze empiriche soddisfacenti. Siamo sicuri che le Regioni possano svolgere il servizio istruzione meglio dello Stato e garantendo l’autonomia scolastica? Perché non fare dei confronti con il rendimento dell’istruzione nelle Regioni a statuto speciale dove questa è gestita a livello decentrato? Quale è il ruolo delle economie di scala? Ugualmente, nel caso delle attività di regolamentazione (che sono quelle prevalenti) siamo sicuri che non si determino effetti negativi per imprese e famiglie a causa di una possibile eccessiva differenziazione tra Regioni?
Parlando invece di vocazioni territoriali sarebbe opportuno che nelle richieste delle Regioni comparissero anche riflessioni adeguate sulle nuove dimensioni meso-regionali di sviluppo nel nostro Paese e conseguentemente sull’esigenza di politiche coordinate tra Regioni, come è già emerso in campo ambientale e logistico tra alcune Regioni del Nord. Vi è da augurarsi che nei tavoli tecnici già costituiti o in corso di costituzione di questo si discuta, per una corretta applicazione dei principi costituzionali di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione.
L’avvio del processo attuativo dell’art.116, c. 3 della Costituzione ha avuto l’indubbio merito di rilanciare la tematica del regionalismo nel nostro Paese quando ci avviciniamo al mezzo secolo di vita delle Regioni a Statuto ordinario. Sarebbe però un grave errore dimenticare che tutto questo avviene in assenza di un quadro istituzionale e, soprattutto, finanziario organico, per cui la giusta prospettiva di regionalismo differenziato rischia di restare una petizione di principio che può portare ad un limitato trasferimento di competenze, senza che si sia affrontato il vero problema della attuazione complessiva del Titolo V della Costituzione.
Per quello che concerne le politiche regionali esiste già adesso una grande potenziale di miglioramento a livello negoziale nell’ambito delle intese definite nel sistema delle Conferenze o tra singole Regioni e Stato, purché le singole Regioni individuino chiaramente i propri obiettivi e le esigenze di collaborazione da parte delle strutture ministeriali. Altrimenti, il rischio è che il dibattito legato al regionalismo asimmetrico si concentri sul problema del residuo fiscale e la redistribuzione spaziale delle risorse pubbliche (senza volerlo sottovalutare), non affrontando la questione prioritaria del miglioramento della funzionalità delle politiche regionali e dei possibili effetti positivi del decentramento sullo sviluppo. Un recente documento della Conferenza dei Presidenti delle Regioni contiene richieste che vanno in questa direzione, ma non sembra che a livello governativo vi sia una adeguata consapevolezza dei limiti di una politica per il decentramento che si fondi solo sull’approccio asimmetrico.
* Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo