Prendere sul serio il regionalismo asimmetrico?
Stefano Piperno
Commento n. 123 - 23 gennaio 2018
La richiesta da parte delle Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna di attuare le previsioni dell’art.116, terzo comma, della Costituzione, ovverosia la possibilità di richiedere competenze aggiuntive rispetto a quelle assunte dalla Regioni a Statuto ordinario, ha risvegliato un significativo interesse su questo modello istituzionale che in letteratura viene definito come "regionalismo asimmetrico (differenziato)" e che è già stato sperimentato con luci e (molte) ombre con le Regioni a Statuto speciale. Mentre Veneto e Lombardia hanno affidato la scelta se iniziare le trattative con il governo a un referendum consultivo regionale (con regole diverse), che ha approvato la proposta in ambedue i casi, la Regione Emilia-Romagna ha seguito il percorso più semplice della proposta diretta al governo per avviare la trattativa. Altre Regioni attraverso i loro Presidenti hanno successivamente dichiarato di volere intraprendere questa strada e tra queste Piemonte e Liguria hanno già elaborato prime ipotesi e avuto un incontro con il Governo.
In generale, non sono emerse critiche rilevanti rispetto a tali proposte, tanto è vero che spesso hanno assunto logiche bipartisan. Questa trasformazione istituzionale, che rispecchia una tendenza presente in molti ordinamenti, suggerisce una breve riflessione preliminare sulle opportunità che essa offre per il futuro del decentramento politico nel nostro Paese così come sui problemi che si possono incontrare per la sua implementazione.
Quali sono i vantaggi potenziali? Il primo è riconducibile alla possibilità di rispondere meglio alle preferenze locali per la fornitura di beni e servizi pubblici e per l’attività di regolazione tenendo conto delle profonde differenze dal punto divista demografico, socio-economico e territoriale delle regioni (pensiamo a Lombardia e Molise) rispetto ad una offerta indifferenziata nazionale. In secondo luogo, un processo di concorrenza verticale tra livelli di governo per l’attribuzione di funzioni in forma asimmetrica può anche garantire la verifica di chi tra il livello nazionale e regionale è più efficiente nel loro svolgimento in termini di rapporto costo/prestazioni, stimolando anche l’innovazione e la diffusione delle best practices. Infine, si eviterebbe di costringere le Regioni più avanzate in termini di capacità istituzionale ed amministrativa ad essere ancorate a quelle più in ritardo nel percorso di decentramento, favorendo un positivo meccanismo di concorrenza orizzontale, oltre che verticale, tra livelli di governo.
Una lettura della documentazione sinora fornita dalle tre Regioni che hanno avviato il percorso di richiesta di ulteriori forme di autonomia mostra come esse individuino in forma leggermente differenziata gli ambiti materiali di cui all’art. 116, terzo comma della Costituzione, tra i quali spiccano quelli relativi all’istruzione (la competenza più importante in termini finanziari) e al mercato del lavoro, alla pianificazione territoriale e alla tutela e valorizzazione dei beni culturali. La giustificazione per le richieste è generalmente legata alla possibilità di adattarsi alle specificità e alle preferenze locali dotando le Regioni di ulteriori strumenti per le politiche di sviluppo nel contesto delle politiche regionali europee, nonché a una presunzione di maggiore efficienza regionale rispetto alla gestione statale. In sostanza, il trasferimento di competenze sarebbe un gioco a somma positiva in termini di sviluppo. Certo, i vantaggi sono solo dichiarati e bisognerà vedere sulla base di quali criteri ed evidenze questi saranno valutati per definire le intese tra Stato e Regioni sul trasferimento di competenze da recepire nelle leggi rafforzate statali.
Una questione che però rimane aperta è legata alle risorse. L’asimmetria nella distribuzione delle competenze richiederà anche una asimmetria nelle modalità di finanziamento. Esse però devono risultare coerenti con le disposizioni dell’art.119 della Costituzione, ovverosia essere basate su un mix di tributi propri, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al territorio regionale e trasferimenti perequativi. Ciò significa che non sono ipotizzabili trasferimenti settoriali alle Regioni che hanno richiesto competenze aggiuntive, e che quindi il finanziamento debba essere prevalentemente riconducibile ai tributi propri e/o (soprattutto) alle compartecipazioni.
Purtroppo, a quasi un decennio dall’approvazione della L. 42/2009 siamo ancora lontani dall’avere raggiunto un assetto organico stabile della finanza regionale (e locale). Ciò pone delicati problemi di compatibilità con il meccanismo che dovrà essere definito per il finanziamento delle funzioni “ordinarie”, con il rischio di avviare il percorso della differenziazione in una modalità transitoria generando conflitti istituzionali e incertezza sulla dotazione di risorse. È soprattutto il sistema perequativo basato su fabbisogni standard e capacità fiscale che presenta i maggiori problemi applicativi qualora le funzioni aggiuntive siano relative ai diritti civili e sociali che richiedono livelli essenziali di prestazioni (pensiamo all’istruzione). Di tutto questo non vi è molta traccia nella documentazione regionale, che rinvia per questi aspetti alle intese, se non nella proposta veneta in cui si richiedono i nove decimi delle tre principali imposte erariali (Irpef, Ires e Iva), senza nessuna evidenza del legame tra questo ammontare di risorse e i costi delle funzioni richieste né con l’assetto complessivo del sistema della finanza regionale. Difficile non pensare che dietro alle proposte di regionalismo asimmetrico in questo caso non vi sia anche l’obiettivo di una modifica delle redistribuzione interregionale di risorse effettuata dallo Stato centrale, ovverosia di una riduzione dei “residui fiscali” – la differenza tra quanto viene raccolto e speso dalla Pubblica Amministrazione nel suo complesso in ciascuna regione – delle Regioni più ricche. Su questi aspetti bisognerà fare chiarezza e, soprattutto, i conti seriamente, all’interno di una “manutenzione intelligente” del sistema previsto dalla L. 42/2009.
Infine, si potrebbe porre anche un problema di rappresentanza. In presenza di un sistema di regionalismo asimmetrico un parlamentare veneto, lombardo o emiliano potrebbe legiferare su materie sulle quali le competenze delle singole Regioni sono diverse. Ad esempio, riallacciandosi alle proposte richiamate in precedenza, potrebbe legiferare in merito alla gestione dei beni culturali in Calabria mentre un parlamentare calabrese non potrebbe farlo per i beni presenti in Lombardia e Veneto. In una prospettiva di più lungo periodo, qualora in futuro venisse introdotta una seconda Camera espressione delle Regioni e delle autonomie locali, l’anomalia risulterebbe ancora più evidente.
In conclusione, è bene prendere sul serio la prospettiva di decentramento asimmetrico nel nostro Paese, ma ciò richiede un impegno parallelo per il riempimento dei numerosi vuoti nel complessivo sistema di finanza decentrata nel nostro Paese. Il lavoro per la definizione delle intese e per la loro implementazione sarà complesso ma può costituire anche una spinta positiva per riprendere con forza un percorso di decentramento. Una trasformazione istituzionale di questo tipo se ben progettata potrebbe essere inserita a pieno titolo nei futuri Programmi nazionali di riforma all’interno dei Documenti di economia e finanza nel quadro del semestre europeo..
* Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo