Quale futuro per la difesa europea nell'era Trump
Lorenzo Vai
Commento n. 95 - 14 dicembre 2016
A conclusione di un 2016 disastroso per chiunque si sia cimentato in previsione politiche, il nuovo anno potrebbe continuare a tormentare analisti, giornalisti ed esperti con un grande interrogativo rimasto irrisolto: che cosa aspettarsi dalla presidenza di Donald Trump? La risposta è di grande interesse per buona parte del mondo, Unione europea (Ue) compresa. Tra i temi sensibili ad un possibile raffreddamento delle relazioni transatlantiche c’è quello della sicurezza e della difesa. La protezione che gli USA hanno assicurato per decenni a buona parte dei paesi europei è stata uno dei prerequisiti per l’avvio e l’avanzamento del processo di integrazione, continuando a svolgere, in anni più recenti, un’essenziale funzione stabilizzatrice delle principali crisi scoppiate in prossimità dell’Ue. Tuttavia, le idee espresse dal nuovo presidente americano durante la campagna elettorale potrebbero dare vita a nuovi scenari, di cui l’Unione deve essere sin da oggi consapevole per non farsi trovare impreparata. Proviamo ad immaginare (con un po’ di fantasia) il concretizzarsi del programma politico di Trump nel campo della sicurezza e della difesa e le sue implicazioni per l’Europa. Per farlo, prendiamo spunto da alcune sue dichiarazioni1:
“Our foreign policy goals must be based on America’s core national security interests, and the following will be my priorities”
Siamo nel 2018, nell’immaginario stato africano di Zambania divampa una sanguinosa guerra civile. I morti sono centinaia, ma ancora di più sono i profughi che cercano una via di fuga intraprendendo la rotta mediterranea verso l’Europa, la cui gestione dei flussi migratori si rivela presto insostenibile. È necessaria una missione di peace enforcement che ponga fine alle ostilità prima che l’emergenza umanitaria e la situazione di instabilità raggiungano i paesi limitrofi. Zambania è tanto vicino alle coste europee quanto lontano da quelle americane. Gli Stati Uniti non sono toccati dalle conseguenze delle guerra in corso e decidono quindi di non intervenire partecipando ad una coalizione internazionale o attraverso la NATO. I paesi europei, lasciati soli nel rispondere militarmente all’emergenza, si rivelano divisi politicamente, oltre a non possedere – né singolarmente né a livello comunitario – le adeguate capacità operative. Le sorti della crisi sono così nella mani della Russia, dell’Arabia Saudita e dell’Egitto, tutti desiderosi di allargare la propria sfera d’influenza a discapito di un’Europa incapace di agire.
“Our allies must contribute toward the financial, political and human costs of our tremendous security burden. But many of them are simply not doing so. They look at the United States as weak and forgiving and feel no obligation to honor their agreements with us.”
Nel 2020, a seguito di una significativa riduzione dei contributi statunitensi, la NATO è stata costretta a ridurre i propri programmi, capacità ed esercitazioni congiunte. La stessa credibilità dell’Alleanza è messa in discussione, il che ha permesso una crescita dell’attivismo militare russo lungo i confini orientali dell’Ue ed un numero sempre maggiore di attacchi cyber dagli effetti destabilizzanti sia a livello politico che economico. I paesi europei non sono riusciti a costruire una struttura alternativa di cooperazione o integrazione militare capace di sostituire la funzione deterrente della NATO, tant’è che nelle repubbliche baltiche, in Finlandia e in Polonia si registra una crescita senza precedenti di movimenti nazionalisti che minacciano l’esistenza dell’Ue e la tutela dei suoi principi e valori democratici, a partire dai diritti delle minoranze russe.
“We will spend what we need to rebuild our military. It is the cheapest investment we can make. We will develop, build and purchase the best equipment known to mankind. Our military dominance must be unquestioned.”
È il 2035 quando lo sviluppo di un nuovo caccia multiruolo in grado di sostituire l’ormai vecchio F-35 giunge a termine. L’azienda americana che lo ha progettato si è potuta avvalere dei progressi ingegneristici in campo militare resi possibili dagli investimenti governativi nella ricerca, e da un cospicuo finanziamento elargito tramite bando pubblico. L’ideazione del caccia, che incorpora al suo interno nuove tecnologie potenzialmente fruibili anche dal settore civile, ha visto la partecipazione di centri universitari, mentre la sua produzione coinvolgerà diverse imprese specializzate. Con la necessità di rimodernare i propri mezzi, e senza poter contare su un’alternativa europea (il cui sviluppo avrebbe richiesto investimenti e partnership industriali transnazionali) molti Stati membri dell’Ue decidono di acquistare l’aereo americano, destinato a diventare lo standard di riferimento nel mercato della difesa per i prossimi 15 anni.
Tornando nel presente, quanto sono realistici questi scenari? Più o meno quanto era considerata realistica l’elezione di Donald Trump fino a qualche mese fa. In questo momento, qualsiasi tipo di previsione su ciò che farà Trump rischia di apparire azzardata, specialmente di fronte a un outsider con il vizio della teatralità (per non dire illusione) propagandistico-pubblicitaria come “the Donald”. All’alchimia degli ingredienti endogeni, come la sintonia o la contrapposizione tra le personalità nella squadra di governo (a partire dal prossimo segretario di stato, il CEO della Exxon Rex Tillerson, che affiancherà il generale James Mattis, futuro segretario della difesa), oppure l’influenza esercitata dal Congresso e dalla macchina amministrativa, andrà sommato il peso dei fattori esogeni, ancora più imprevedibili (come sarebbe stata l’amministrazione Bush senza l’11 settembre 2001?).
Per chi, come l’Ue, guarda agli USA con preoccupazione, l’unica cosa saggia da fare è adottare un pessimismo preventivo. Qualunque siano i futuri scenari europei, i potenziali effetti negativi nel settore della sicurezza e difesa scaturiti dall’elezione di Trump hanno un’origine antecedente, imputabile all’Ue e ai suoi Stati membri. Se l’Ue si troverà impreparata a rispondere a una guerra civile nel vicinato, se l’Ue non sarà in grado di badare alla propria sicurezza interna, o se l’Ue non sosterrà la ricerca in un’industria della difesa che operi in un mercato più concorrenziale, la colpa non sarà di Trump. Seppure in un momento politicamente difficile, l’Unione avrà nei prossimi mesi l’opportunità di compiere concreti passi avanti verso una maggiore autonomia strategica. Il piano di implementazione della Strategia Globale dell’Ue nel settore della difesa, presentato dall’Alto Rappresentante a metà novembre, le possibili iniziative di cooperazione che alcuni Stati membri potrebbero proporre al Consiglio europeo di domani, e l’attuazione dello European Defence Action Plan della Commissione, inizierebbero ad affrontare proprio quelle mancanze dell’Europa della difesa – strutture, capacità, integrazione ed industria – che ci hanno fin qui indotto ad immaginare un futuro a tinte fosche. Se così fosse, anche Trump non farebbe più tanta paura.
Lorenzo Vai é ricercatore del Centro Studi sul Federalismo e dell’Istituto Affari Internazionali
1 Tutte le dichiarazioni ed i punti programmatici riportati sono estrapolati dal Foreign Policy Speech tenuto da Donald Trump il 27 aprile 2016