2016: lo Stato dell'Unione, gli Stati e l'Unione
Flavio Brugnoli
Commento n. 90 - 15 settembre 2016
Il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ieri si è presentato davanti al Parlamento europeo (Pe), a Strasburgo, per il suo secondo discorso sullo “Stato dell’Unione”, con un messaggio chiaro: l’Europa “sta vivendo, almeno in parte, una crisi esistenziale”. Se lo Stato dell’Unione 2015 aveva al centro la crisi dei rifugiati e chiamava i Paesi membri a sincronizzarsi su “l’ora dell’onestà, dell’unità e della solidarietà”, quello del 2016 deve constatare che quell’ora è ancora lontana dallo scoccare: “(…) mai prima d’ora ho visto così poca intesa tra i nostri Stati membri. Così pochi settori in cui sono disposti a collaborare. Mai prima d’ora ho sentito così tanti leader parlare unicamente dei loro problemi interni, senza menzionare l’Europa o citandola solo di passaggio”.
Juncker invita a non cedere alla frustrazione e alla depressione, con toni di un realismo che sprona all’azione e che ricorda all’Europa che “il mondo ci guarda”, che l’Unione, all’epoca della globalizzazione, non può ripiegarsi sui problemi interni, illudendosi che le agende nazionali contengano ricette ancora valide per sfide globali. Al tempo stesso, il Presidente della Commissione tocca uno dei dilemmi con cui sempre si confronta chi auspica un’evoluzione federale dell’Ue: il rapporto fra gli Stati membri e l’Unione. Juncker, che ieri era davanti ai rappresentanti dei cittadini europei, domani incontrerà i leader nazionali al Vertice informale di Bratislava. E per questo a Strasburgo ha ribadito che “[deve] tener conto di entrambi i livelli di democrazia della nostra Unione, entrambi egualmente importanti”. E ha concluso: “Noi non siamo gli Stati Uniti d’Europa. La nostra Unione europea è molto più complessa. E ignorare questa complessità sarebbe un errore che ci porterebbe a soluzioni sbagliate”.
La crisi economica internazionale, una volta che ha colpito l’Europa, e in particolare l’eurozona, ha richiesto risposte spesso emergenziali. Molto è stato fatto, anche se è indubbio che altrettanto spesso si sarebbe potuto fare prima e meglio. La mancanza sia di leadership comunitaria, all’epoca della Commissione guidata da Barroso, sia di consistenti risorse proprie dell’Unione ha rimesso al centro gli Stati nazionali e il Consiglio europeo, in cui siedono i capi di Stato e di governo. Il metodo intergovernativo ha ripreso il sopravvento sul metodo comunitario, pur se, in taluni casi, con formule intermedie originali – si pensi al Fiscal Compact, trattato internazionale fra Stati, che però vede un ruolo incisivo delle istituzioni comunitarie. Una torsione dell’architettura istituzionale dell’Ue rispetto al quale la Commissione Juncker ha rappresentato anche un tentativo di ribilanciamento, con la “parlamentarizzazione” della sua nomina e l’instaurazione di un rapporto fiduciario con il Pe.
Rimane il paradosso che gli Stati nazionali appaiono oggi sia impotenti sia indispensabili, sia ampia parte del problema sia necessari (co-)promotori di soluzioni pro-integrazione. In un contesto che vede una crisi di consenso dell’Unione agli occhi dei cittadini, talvolta attratti dalle sirene di chi pensa di rispondere ai problemi del XXI secolo con le ricette fallite del XX: nazionalismo e protezionismo, rancore ed esclusione. In questo labirinto occorrono (anche) nuovi modi di “narrare” il futuro che auspichiamo: il progetto federale non è contro gli Stati nazionali, ma li inserisce in un quadro di governo multilivello, ciascuno con potere e risorse adeguati. Alle parole vuote sul ritorno alla “sovranità nazionale” risponde valorizzando le interdipendenze e le identità plurali proprie della società contemporanea. Lungi dal disegnare fantomatici “Superstati”, prospetta una diffusione e un bilanciamento dei poteri, con una loro responsabilizzazione a tutti i livelli di governo.
Per far crescere il progetto europeo, breve e medio-lungo termine devono camminare di pari passo. è importante che Juncker abbia annunciato che – come previsto dal Rapporto dei Cinque Presidenti – la Commissione presenterà la propria “visione del futuro in un Libro bianco nel marzo 2017, in tempo per il 60º anniversario della firma dei trattati di Roma”. E il Pe sta svolgendo un lavoro encomiabile, sia sul molto che è possibile fare a trattati esistenti sia sui pochi ma indispensabili cambiamenti necessari ai trattati. Ma servono risposte urgenti sui fronti più caldi, quello della ripresa economica e quello della sicurezza. L’agenda prospettata da Juncker offre opportunità che Stati membri e istituzioni comunitarie devono cogliere insieme: raddoppio di consistenza e durata del Fondo europeo di investimenti strategici, cardine del “Piano Juncker”; sviluppo del digitale e della connettività; Piano di investimenti per l’Africa e il vicinato europeo; varo di una guardia costiera e di frontiera europea; necessità di darsi una politica di difesa europea, per la cui industria nascerà un “fondo europeo per la difesa”, e invito agli Stati membri a sfruttare lo strumento della “cooperazione strutturata permanente”. Importante la sottolineatura del lavoro svolto dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini (unico membro della Commissione citato da Juncker), che deve “diventare il nostro ministro degli esteri europeo”. Ancora troppo poco, invece, su come affrontare la crisi dei migranti, ma un piccolo segnale di speranza viene dalla nascita di un “corpo europeo di solidarietà” – embrione di un servizio civile europeo.
Le coincidenze del calendario inducono a raffrontare le prospettive delineate dal Presidente Juncker con quelle che il giorno prima, 13 settembre, il Presidente della BCE Mario Draghi ha tracciato a Trento, in occasione dell’assegnazione del Premio Alcide De Gasperi. Traendo ispirazione da uno dei Padri fondatori dell’integrazione europea, Draghi con icastica chiarezza ha indicato che “le sfide comuni andranno affrontate con strategie sovranazionali anziché intergovernative”. Al tempo stesso, ha sottolineato che, come allora “l’integrazione doveva prima di tutto rispondere ai bisogni immediati dei cittadini”, oggi è necessario “concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili”. E gli ambiti in cui un’azione europea è indispensabile sono chiari: “i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa”. Solo una sovranità condivisa consentirà di affrontare quelle grandi sfide. Per questo – con le parole di De Gasperi al Consiglio d’Europa nel 1952 – oggi più che mai “è dunque l’aspirazione politica all’unità a dover prevalere”.
Il discorso sullo Stato dell’Unione 2016 rappresenta anche il contributo della Commissione al Vertice informale che 27 Capi di stato e di governo terranno domani a Bratislava. Il primo senza il Regno Unito, in cui la questione “Brexit” sarà all’ordine del giorno. Passate le onde effimere dell’euforia o del panico dopo l’esito del referendum del 23 giugno scorso – scommessa maldestra e clamorosamente persa da David Cameron –, siamo ormai consapevoli che “sarà un lungo addio”. Questo però non significa che i 27 possano rimanere in un limbo, in attesa della interpretazione autentica del “Brexit means Brexit” della Primo ministro Theresa May o paralizzati dai timori per le scadenze elettorali nazionali. È positivo che dal governo italiano siano venuti passi simbolici significativi, come il Vertice di Ventotene, ma soprattutto proposte concrete importanti, come quella per un Fondo europeo per l’indennità di disoccupazione o per un’Unione europea della difesa – avanzata anche da Francia e Germania, purtroppo non (ancora) d’intesa con l’Italia. Solo se avanguardie di Stati avranno la forza e la volontà di fare passi in comune su azioni concrete, che diano un ruolo centrale alle istituzioni comunitarie e senza perdere di vista l’obiettivo dell’Unione politica, possiamo sperare di costruire un futuro europeo migliore, insieme..
Flavio Brugnoli è Direttore del Centro Studi sul Federalismo