Europa, le due sfide: come venirne fuori?
Antonio Padoa Schioppa
Commento n. 72 - 23 dicembre 2015
Le due grandi sfide che l’Europa si trova ad affrontare sono il declino economico, con il congiunto grave calo dell’occupazione soprattutto giovanile, e la gestione del fenomeno migratorio, sul quale si innesta, direttamente e indirettamente, anche la questione della sicurezza. Entrambe le sfide – sinora affrontate dai Governi in modo chiaramente inadeguato – hanno un elemento comune: interessano l’Europa intera, sia pure in misura e con caratteristiche differenti nei singoli Paesi. Ne consegue che esse non possono venire impostate e risolte efficacemente se non con iniziative e provvedimenti comuni, assunti cioè sulla base di decisioni comuni.
Per la crescita e per l’occupazione questo si è tentato di fare sin qui, puntando però sempre e soltanto sul metodo intergovernativo. Alcuni risultati importanti si sono ottenuti, così in tema di unione bancaria, ma il risultato voluto – il rilancio della crescita e dell’occupazione – sinora non è stato raggiunto: basta a confermare questo giudizio il confronto con gli Stati Uniti, dai quali pure la crisi è partita. È mancato al di qua dell’Atlantico un governo comune dell’economia, perché tale non è quello dei vertici intergovernativi, per di più legati dal requisito paralizzante dell’unanimità. È mancato un governo dell’Unione connesso con una fiscalità propria dell’Unione stessa, entrambi ancorati al supporto effettivo del Parlamento europeo, tale da legittimarne democraticamente le scelte.
Ancora più grave è la carenza di un governo comune dell’Unione europea per gestire le migrazioni, per combattere i terrorismo e per assicurare la sicurezza e la difesa. Ristabilire i controlli alle frontiere interne tra i Paesi dell’Unione – come purtroppo qualche Paese spinge a fare – significherebbe non solo caricare i singoli Paesi di un peso organizzativo ed economico non sopportabile, ma anche la messa a rischio dello stesso mercato unico: un esito dirompente. Occorre invece una gestione unitaria delle frontiere esterne dell’Europa. Ed occorre una gestione coordinata dell’immissione dei migranti sia quanto ai numeri globali sia quanto alle destinazioni specifiche entro l’Unione, regolate mediante opportuni incentivi e disincentivi. Riguardo al terrorismo, se si fosse istituita una intelligence comune, con gestione trasparente e comune dei dati, forse l’eccidio di Parigi avrebbe potuto essere evitato. Quanto alla difesa, è ben noto che una difesa comune europea, in linea di principio avviabile già con il Trattato di Lisbona, costerebbe ai cittadini molto meno e sarebbe in pari tempo molto più efficace.
Quello che serve per affrontare le sfide è dunque un governo comune dell’Unione, che sinora è mancato. Per la sfida dell’economia è possibile, necessaria e giuridicamente possibile una cooperazione rafforzata entro l’Eurozona con un ancoraggio al Parlamento europeo; per la difesa è possibile una cooperazione strutturata anche circoscritta ad alcuni Paesi. Per le immigrazioni e per il terrorismo una configurazione ristretta che divida al suo interno l’Europa non sembra invece praticabile.
Queste linee sono attuabili già con i trattati esistenti; per altri scopi, quali la fiscalità europea, occorreranno alcune incisive modifiche dei trattati. Alla messa a punto di entrambi i percorsi sta efficacemente lavorando la Commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo.
Osservatori autorevoli insistono sulla necessità di muovere verso una struttura federale europea. Il Rapporto dei cinque presidenti (Consiglio europeo, Commissione, BCE, Eurogruppo, PE) parla invece in termini ancora molto vaghi di unione politica. Occorre avere chiaro cosa questo obbiettivo in concreto comporti.
Istituire un Governo comune europeo significa in sostanza tre cose: a) decidere insieme, naturalmente a maggioranza, ove non vi sia accordo tra tutti i governi; b) affidare ad un’autorità singola (la Commissione) il compito di svolgere e rendere operative le azioni di un governo dotato delle risorse necessarie allo scopo; c) ancorare le decisioni di base, legislative e politiche, al voto del Parlamento europeo. Nulla di meno e nulla di più di questo.
Tutto ciò può sembrare banale, ma non lo è affatto: sinora è prevalso per l’economia il metodo del direttorio, guidato di fatto dalla Germania e reso insuperabile con il potere di veto. Ci si è affidati al solo metodo intergovernativo. Per la politica estera e per gli interventi esterni non si è neppure arrivati a questo: l’Europa ha proceduto in ordine sparso, anche se la posta in gioco era comune: così per l’Irak, così per il Medio Oriente, dalla Libia alla Siria. Eppure la crisi ucraina, ove l’escalation militare si è per ora arrestata in seguito agli accordi negoziati a nome dell’Ue da Angela Merkel e François Hollande, dimostra quanto possa l’Europa quando mette in campo almeno un embrione di azione comune. Per le migrazioni, l’urgenza di creare un governo operativo comune è ancora più evidente. A sua volta, una difesa europea non può, in regime di democrazia, che rispondere a un governo comune, articolato sui due livelli del Consiglio europeo (deliberante a maggioranza qualificata, altrimenti non si procede) e della Commissione, la quale (soprattutto dopo l’elezione innovativa nelle procedure del 2014) è democraticamente legittimata sia dal Parlamento europeo sia dal Consiglio europeo.
Si creerebbe così un Superstato, esautorando gli Stati nazionali? Assolutamente no. Il bilancio comune (quanto meno entro l’Eurozona attuale e futura) potrebbe salire dall’attuale 1% al 2% o al 3% del Pil europeo, in parte derivato da trasferimenti nazionali, in parte da tasse comuni (carbon tax, tassa sulle transazioni finanziarie), in parte da Project bonds: tutt’altra cosa rispetto al bilancio federale statunitense, che è dell’ordine del 25% del Pil. In comune andrebbe gestito solo ciò che gli Stati nazionali già ora non sono più in grado di gestire con efficacia: fondamentale è al riguardo il principio di sussidiarietà sancito dai trattati, che deve operare sia verso il basso che verso l’alto. Non cessione di sovranità, dunque, ma piuttosto un riacquisto di sovranità condivisa con metodo democratico, fondata sulla doppia legittimazione del Parlamento europeo eletto dai cittadini e dagli Stati presenti nel Consiglio europeo e in quello dei ministri.
Questa prospettiva si configura in piena continuità – quanto alle istituzioni e quanto alle regole costituzionali da adottare – rispetto al cammino percorso dall’Unione in un sessantennio di integrazione, dal 1950 al 2008. Anche la doppia geometria di un’unione più stretta per l’Eurozona e più larga per il mercato unico e per la sicurezza è attuabile con procedure e riforme istituzionali relativamente semplici: purché, anzitutto in Francia e Germania, vi sia la volontà politica di arrivare al traguardo. Il governo italiano potrebbe su questo fronte esercitare – come è avvenuto in passato per alcuni passaggi chiave – una funzione di impulso di grande rilievo.
Con un governo comune per l’economia e per la sicurezza – e solo così, sulla base dei risultati ottenuti – l’Unione potrà riacquistare agli occhi dei cittadini europei quella attrattività concreta e ideale che la miopia dei governi nazionali ha messo a repentaglio grave, avviando un processo discendente che potrebbe risultare irreversibile.