La riforma costituzionale e il rapporto Stato-Regioni
Paola Bilancia - Filippo Scuto
Commento n. 70 - 17 dicembre 2015
Se si osservano i tentativi sviluppatisi nel corso degli ultimi anni di intervenire sul tessuto normativo della Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948, sembra di poter dire che anche per la Carta fondamentale della Repubblica valga il detto, solitamente applicato alla Chiesa, che essa “semper reformanda est”. Ciò è tanto più vero se si fa riferimento alla Parte Seconda della Costituzione – quella, cioè, che delinea l’architettura costituzionale della Repubblica – e segnatamente al Titolo V, dedicato in particolare, nello sviluppo del principio fondamentale di cui all’articolo 5 della Costituzione, al sistema costituzionale delle autonomie locali.
L’attuale progetto di riforma costituzionale ha, come noto, una portata molto ampia che non si limita all’intervento nei rapporti tra lo Stato e le Regioni ma apporta significative modifiche alla Parte Seconda della Costituzione, che vanno dal “superamento” del bicameralismo paritario ad un tendenziale rafforzamento del ruolo del Governo. Riforma che, come tale, impatta quindi sulla forma di governo e sulla forma di Stato regionale tipica del modello italiano, attraverso una nuova modifica del Titolo V.
A quasi tre lustri dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, un dato appare difficilmente discutibile: è necessario rivedere il complesso sistema di rapporti tra lo Stato e le Regioni, sia pur nel quadro della cosiddetta “Repubblica delle autonomie” delineato da quella riforma. In questi anni, peraltro, alle difficoltà nel dare attuazione alla riforma del Titolo V – che si muoveva nell’ottica di un aumento delle competenze e delle funzioni degli enti territoriali ma che non ha introdotto un efficiente modello di funzionamento dei rapporti tra lo Stato e le Regioni – si è aggiunta la grave crisi economica del Paese, che ha nuovamente messo in discussione la questione dell’autonomia regionale e, più in generale, degli enti territoriali italiani.
Per quel che concerne i rapporti Stato-Regioni, il primo, rilevante, aspetto di questa riforma riguarda la creazione di un Senato rappresentativo delle autonomie territoriali. Al di là delle questioni relative alla modalità di elezione del nuovo Senato, l’elemento di rilievo primario è rappresentato dalla nascita di una Camera rappresentativa degli enti territoriali in un contesto in cui si pone fine al modello del bicameralismo perfetto italiano, diversificando ruolo e funzioni delle due Camere, come avviene peraltro nella maggior parte degli Stati federali e regionali nel mondo.
Il Senato diviene esplicitamente rappresentativo delle “istituzioni territoriali” (art. 55 Cost. nuovo testo), nella prospettiva di dare ad esso la connotazione di una Camera “delle Autonomie” che consenta l’immissione di una rappresentanza regionale e comunale nel procedimento legislativo, di indirizzo e di controllo. Elemento, questo del coinvolgimento di Regioni ed enti locali nella formazione della legislazione statale, che era mancato nella riforma costituzionale del 2001, nonostante la ristrutturazione dei rapporti fra Stato ed enti territoriali in senso ampiamente “regional-federale”. Al di là delle possibili criticità connesse al funzionamento del nuovo Senato ed all’effettiva portata della partecipazione degli enti territoriali al processo decisionale statale, è indubbio che la riforma rappresenta un importante passo in avanti, in quanto tenta di colmare tale lacuna nel momento in cui crea un Senato che «rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica» (art. 55 Cost. nuovo testo).
L’elemento di debolezza del nuovo Senato sembra riguardare soprattutto la mancata individuazione di significativi strumenti di cooperazione che, nell’ambito delle funzioni ed attribuzioni del Senato, dovrebbero essere finalizzati a favorirne il ruolo di composizione dei conflitti di competenze tra Stato e Regioni attenuando, così, quel tasso di conflittualità che ha rappresentato uno degli elementi di maggiore criticità della riforma del Titolo V del 2001.
La riforma interviene anche nel riparto delle competenze legislative di Stato e Regioni. Il nuovo testo dell’art.117 Cost. si orienta a favore di uno spostamento verso le competenze esclusive statali di materie-chiave e di interesse unitario quali produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto, ordinamento della comunicazione, tutela e sicurezza del lavoro. Questo trasferimento appare senza dubbio condivisibile. Sin da subito è apparso evidente che la riforma costituzionale del 2001 avesse ridotto eccessivamente il numero delle competenze esclusive statali, includendo tra le materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni ambiti di intervento che, invece, dovrebbero spettare allo Stato, come dimostra il caso esemplificativo dell’inserimento della “distribuzione nazionale di energia” tra le materie concorrenti.
Questa riforma appare quindi orientata ad un riordino delle materie finalizzato a favorire un ri-accentramento di alcune funzioni in capo allo Stato. Il che non è necessariamente negativo per l’autonomia regionale dal momento che, come si è visto, diverse materie sottratte alla competenza statale dalla precedente riforma del Titolo V necessitano di essere reinserite tra le competenze esclusive statali. L’insieme delle materie sulle quali le Regioni possono esercitare il loro potere legislativo, peraltro, non appare eccessivamente ridimensionato dalla riforma.
Tuttavia, non appaiono del tutto funzionali ad un riordino del sistema pienamente rispettoso degli spazi di intervento delle Regioni e della loro autonomia sia l’introduzione di una pressoché generalizzata “clausola di supremazia”, che consente al legislatore statale di sostituirsi a quello regionale in tutti gli ambiti in cui non disponga già di una competenza esclusiva, sia la reintroduzione della clausola dell’“interesse nazionale” che era stata già sperimentata nel nostro ordinamento sino alla riforma costituzionale del 2001 e che aveva consentito una forte espansione delle leggi statali ai danni del legislatore regionale.
In conclusione, questa riforma contiene indubbiamente degli aspetti apprezzabili per quanto riguarda la disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni e, in un certo senso, completa la riforma del Titolo V del 2001. Tuttavia, sarebbe auspicabile una più incisiva evoluzione in senso federale della forma di stato italiana che potrebbe peraltro risultare un contemperamento, nella prospettiva di un ragionevole e ponderato equilibrio tra poteri, anche dei meccanismi introdotti da questa riforma per assicurare stabilità di governo e rapidità decisionale.