Elezioni catalane: adesso riformare la Costituzione spagnola
Anna Mastromarino
Commento n. 63 - 29 settembre 2015
Il 27 settembre scorso in Catalogna si sono svolte le elezioni politiche per il rinnovo della Generalitat, l’Assemblea legislativa della comunità autonoma.Si è trattato di un evento elettorale particolarmente atteso, perché caricato, nel tempo, di pathos ed ansie collettive, anche alla luce del progressivo crescere delle tensioni che hanno caratterizzato negli ultimi tempi i rapporti fra Madrid e Barcellona.
Ai cittadini catalani che si sono recati alle urne è stato chiesto molto di più che pronunciarsi sulla base dei loro desiderata politici. La proposta elettorale in termini di programmi e coalizioni, infatti, era stata congeniata al fine di dedurre dal voto la volontà degli elettori di fare della Catalogna uno Stato indipendente.
È da tempo che, nella politica catalana, la tradizionale contrapposizione ideologica fra partiti è andata annacquandosi dentro un cleavage assai più marcato: quello fra indipendentisti e non. Non è un caso se alcuni partiti protagonisti della scena politica catalana, si pensi a Esquerra Unida e Convergencia i Unio, nell’ultima tornata elettorale, hanno finito con il confluire in un progetto politico di più ampio respiro, una grande coalizione per il sì (JxSì), il cui programma verte, appunto, attorno alla secessione della Catalogna.
Dopo anni di inutili tentativi esperiti al fine di attivare un dialogo fra il centro e la periferia; dopo infruttuose trattative, congelate sempre in fase embrionale; dopo fallite manovre per attivare procedure di consultazione popolare, la trasformazione de facto del voto politico del 27 settembre in un referendum sul futuro della Catalogna è parsa ai partiti indipendentisti l’unica via per assicurare legittimazione popolare al loro progetto secessionista.
Ciò non senza conseguenze negative, dovute, sul piano giuridico e politico, alla torsione inflitta alla funzione rappresentativa dell’elezione, piegata a fini plebiscitari.
Vale la pena, commentando a caldo i risultati delle elezioni catalane, sottolineare innanzitutto alcuni dati di fatto: la partecipazione record che ha interessato il 76,73% dei cittadini; l’assegnazione alla coalizione JxSì di ben 62 seggi su 135; la crescita di Ciudadanos, che conquista ben 25 seggi, il contenimento di Podemos che nonostante la denominazione in catalano (Catalunya, Si que es Pot), non pare aver fatto breccia fra gli elettori; la caduta dei popolari; l’affermazione di Candidatura d’Unitat Popular (CUP), una formazione di estrema sinistra, indipendentista ed anticapitalista che passa dai tre seggi del 2012 ai 10 di oggi.
Per il resto le certezze finiscono qui. In particolare, devono essere ridimensionati, in un’ottica di realismo politico, le affermazioni di chi sostiene che è giunto il tempo dell’indipendenza catalana, senza se e senza ma.
Basti pensare che, percentuali alla mano, i cittadini che si ritiene si siano espressi favorevolmente sull’indipendenza (47,7%) in un’elezione politica non raggiungerebbero comunque la maggioranza degli aventi diritto: un anno fa gli stessi scozzesi hanno visto il loro sogno di indipendenza sfumare quando i sì pronunciati dagli elettori al referendum sull’indipendenza della Scozia non erano andati oltre il 44,7%.
Da un punto di vista che potremmo definire di “psicologia elettorale”, quel 47,7% di voti raccolti dagli indipendentisti (JxSì + CUP) difficilmente può rappresentare una fedele proiezione dei consensi che un eventuale referendum sulla secessione della Catalogna dalla Spagna potrebbe raccogliere. La natura dicotomica delle consultazioni plebiscitarie, basata sulla netta distinzione fra sì e no, con le immediate conseguenze che da essa discendono, inducono nell’elettore una cautela, un timore rispetto alle conseguenze per il futuro che condizionano pesantemente il voto e che non sono altrimenti presi in considerazione nelle elezioni politiche dove la preferenza è finalizzata alla rappresentanza politica e non alla produzione di un effetto giuridico immediato: in questo senso si pensi, di nuovo, al caso scozzese ed al peso giocato sull’esito referendario dai timori nutriti allora in merito all’eventuale uscita della Scozia dall’Ue in seguito alla sua secessione.
Rebus sic stantibus, con molta probabilità anche quando gli indipendentisti riuscissero nell’impresa (per ora impossibile dal punto di vista sia politico sia costituzionale) di far indire un referendum sull’indipendenza della Catalogna, l’esito della consultazione non sarebbe loro favorevole: e senza un chiaro voto favorevole della maggioranza dei cittadini, come insegna la giurisprudenza della Corte Suprema canadese, ormai comunemente assunta in ambito internazionale quale roadmap alla secessione, è preclusa ogni via alla nascita e riconoscimento di un nuovo Stato.
A ciò si aggiunga che anche da un punto di vista meramente politico la strada degli indipendentisti all’interno della Generalitat appare decisamente in salita, dal momento che la Coalizione per il sì con 62 seggi (39,54%) potrà contare sulla maggioranza assoluta in Assemblea solo alleandosi con i dieci seggi di CUP, il cui afflato indipendentista però affonda le sue radici non certo nella vocazione nazionalista, bensì in convinzioni anticapitaliste.
Concludendo: chi ha vinto le elezioni in Catalogna? Difficile a dirsi. Forse il sistema costituzionale spagnolo.
In effetti, se una considerazione può essere tratta essa deve riguardare più generalmente l’intero assetto costituzionale della Spagna, in particolare per quel che concerne l’organizzazione territoriale. I cittadini chiedono evidentemente da tempo nuove soluzioni di convivenza, capaci di rispondere alle esigenze di una società plurale e differenziata sotto tanti aspetti, non da ultimi quelli di natura etnico-nazionale.
Soluzioni che però non necessariamente si concretano nell’avvio di un processo di secessione.
I risultati elettorali in Catalogna sembrano evidenziare che è giunto il tempo per la Spagna di affrontare il futuro, intraprendendo coraggiosamente la via della riforma costituzionale, in senso compiutamente federale. La consapevolezza dell’inevitabile ormai c’è: la classe politica spagnola dovrà necessariamente confrontarsi con questa sfida, che non può essere più posticipata.
* Ricercatore di Diritto Pubblico Comparato, Università di Torino