Il fascino discreto della "Representation without Taxation"
Stefano Piperno
Commento n. 62 - 15 settembre 2015
La proposta del Primo ministro Renzi di eliminare completamente l’imposizione patrimoniale sulla prima casa (Tasi), che rappresenta una componente significativa delle entrate tributarie comunali, si presta a valutazioni economiche di vario tipo. Sotto il profilo della teoria del federalismo fiscale l’imposta sugli immobili (comprese le prime case di abitazione) viene considerata la soluzione migliore per le amministrazioni locali, perché il valore delle abitazioni è legato alla fornitura dei servizi pubblici locali e l’imposta in buona parte non è esportabile su chi non ne usufruisce. In questa maniera si rispetta il principio del beneficio, ovvero sul legame tra imposta pagata e benefici tratti dai servizi pubblici locali incentivando anche il comportamento responsabile degli amministratori locali sottoposti al vaglio del voto dei cittadini residenti e proprietari. Ciò poi corrisponde alla pratica dei paesi OCSE: in 25 su 34 dei paesi OCSE le imposte sulla proprietà immobiliare sono di pressoché esclusiva competenza locale. Ugualmente, una esenzione totale della prima casa dall’imposizione immobiliare risulterebbe solo in situazioni a noi lontane come negli ordinamenti del Niger, Togo, Tailandia e Yemen (è emerso nell’ultima Conferenza ANCI-IFEL).
Sotto il profilo della politica economica, nell’attuale fase congiunturale l’evidenza empirica sinora emersa propende per considerare il possibile impatto della riduzione di tale imposta sulla crescita come marginale, così come quello sulla ripresa del mercato edilizio (occorrerebbe semmai rivedere l’imposizione sulle altre proprietà immobiliari) suggerendo piuttosto di ridurre altre imposte (come quelle sul reddito) con maggiore impatto. Anche le organizzazioni internazionali (UE, OCSE, FMI) ritengono più efficiente una riduzione dell’imposizione sul lavoro e sulle imprese.
Infine, sotto il profilo più generale delle relazioni intergovernative l’abolizione comporterebbe unariduzione per l’autonomia tributaria degli enti e quindi anche per la loro responsabilizzazione, che costituivano obiettivi prioritari della legge sul federalismo fiscale (l.42/09).
Se quindi da questi vari profili di analisi si trae un giudizio negativo sulla proposta essa è spiegabile solo con motivazioni legate alla sua popolarità politica in un Paese con l’80 per cento delle famiglie che vive in una casa di proprietà e almeno il 90 per cento dei contribuenti che sono proprietari (come era già avvenuto prima delle elezioni del 2008). Del resto, a causa della sua visibilità anche nella letteratura internazionale essa è definita ”l’imposta più odiata”. Stupisce però che anche i Comuni la accettino supinamente, al di là della richiesta di prammatica di una mera compensazione per i mancati gettiti. Dato che non emergono fonti tributarie alternative (a meno di non aumentare l’imposizione su le altre forme di proprietà immobiliare, questo sì con conseguenze negative sul mercato), ciò vuole dire che sarà necessario un aumento dei trasferimenti statali, con tutti i costi di transazione che ciò comporta per la valutazione precisa delle compensazioni a livello di singolo Comune. Essi sono ben presenti agli operatori del settore dopo l’esperienza dell’eliminazione dell’ICI sulla prima casa operata dal governo Berlusconi nel 2008, quando questa ha dato origine a un contenzioso tra Comuni e Ministero degli interni, rendendo necessario anche un intervento di validazione della Corte dei Conti con tutti i costi amministrativi che si possono immaginare. Non solo, ma i Comuni rinunciano probabilmente ad una entrata comunque dinamica in favore di un trasferimento che difficilmente in futuro sarà incrementato annualmente.
Certamente questo non vuole dire che il sistema basato su Tasi e Imu non possa e non debba subire dei correttivi anche per finalità redistributive (oggi è eccessivamente regressiva) introducendo adeguate fasce di esenzione e/o rimodulando le aliquote, e ci sono già alcune proposte sensate in circolazione. Così come vi è la necessità di rendere più equo il sistema di imposizione immobiliare, alla luce delle delega fiscale, anche attraverso la revisione del catasto. A questo doveva servire la nuova Local tax prevista nel Programma nazionale di riforma 2015, ma purtroppo tutto sembra rinviato a un futuro imprecisato.
Ne derivano due conclusioni che non lasciano presagire nulla di buono per il futuro del federalismo fiscale in Italia. La prima è che, come sempre, si affrontano i problemi dell’assetto complessivo delle relazioni intergovernative in maniera non sistematica. La seconda è che i Comuni non amano troppo l’autonomia tributaria e nell’alternativa tra tributi propri e trasferimenti statali scelgono i secondi. Insomma, il modello della "representation without taxation" nato con la riforma fiscale all’inizio degli anni ’70 sembra continuare ad essere nel cuore dei nostri amministratori locali. Il percorso per raddrizzare “l’albero storto” della finanza pubblica italiana – come era stata metaforicamente definita in una relazione del Governo (nel 2010) l’asimmetria tra la distribuzione delle competenze di spesa e quelle relative alle entrate tributarie dei governi subnazionali in Italia – pare ancora accidentato.
* Collaboratore del Centro Studi sul Federalismo